Silenzio pressoché totale, fatta salva l’eccezione del Washington Post: questa la reazione dei media allo scoop di venerdì scorso di Business Insider, primo a pubblicare le confessioni di William J. Harrington, per 11 anni analista di Moody’s (dal 1999 alle dimissioni lo scorso anno), che confermano le accuse sollevate in più occasioni anche alle rivali S&P e Fitch e riassunte dal sito d’informazione finanziaria Usa con l’eloquente titolo di «marci fino al midollo».
Dal 2006 al 2010, Harrington è stato senior vicepresident della divisione prodotti derivati, la stessa responsabile per la produzione di molti dei disastrosi rating pubblicati da Moody’s durante la bolla immobiliare. Harrington ha vuotato il sacco rendendo pubblica la sua storia attraverso un commento di 78 pagine alla riforma delle agenzie di rating proposta dalla Sec, documento recapitato all’ente regolatore della Borsa l’8 agosto scorso. Il primo conflitto d’interessi sottolineato da Harrington è noto, ovvero il fatto che Moody’s è pagata dagli stessi soggetti emettitori (banche e aziende) le cui security si suppone che debbano essere analizzate oggettivamente dall’agenzia. Questo conflitto pervade ogni aspetto dell’operatività di Moody’s, ha dichiarato Harrington, attraverso l’incentivazione di tutto il personale, inclusi gli analisti, affinché i clienti ottengano il giudizio che desiderano, onde evitare che questi licenzino Moody’s e si rivolgano ad altre più compiacenti agenzie.
Gli analisti le cui conclusioni fanno in modo che i clienti di Moody’s non ottengano ciò che vogliono, rende noto Harrington, vengono visti come impeditori di affari e quindi una minaccia per il business dell’agenzia. Per questo, vengono trasferiti, posti sotto procedimenti disciplinari, «minacciati» o licenziati. In breve, Harrington descrive una cultura del conflitto così pervasiva da rendere spesso i giudizi emessi da Moody’s, nella migliore delle ipotesi inutili e nella peggiore pericolosi. Per Harrington, inoltre, le proposte di riforma della Sec renderanno l’integrità dei rating emessi da Moody’s peggiore e non migliore e la stessa campagna di riforma e trasparenza interna sposata dall’agenzia altro non sarebbe che un abbellimento a uso e consumo delle pubbliche relazioni.
Ma ecco la accuse dirette a Moody’s avanzate da Harrington nella sua lettera. 1) I rating non riflettono i giudizi degli analisti che hanno studiato i titoli, visto che il processo decisionale è sì in mano ai comitati per il rating, i quali traggono in maniera privata le loro conclusioni rispetto alle valutazioni che ogni security merita ma poi vedono il management migliorare tali giudizi per far ottenere al cliente ciò che vuole.
2) I comitati spesso decidono alcune valutazioni indipendentemente dai risultati degli auditing esterni e manager e i dirigenti del marketing cercano di rendere i clienti «felici», migliorando i loro rating. Chiunque non si comporti in questo modo è visto come un «piantagrane» per redimere il quale il management utilizza una varietà di tattiche finalizzate a creare dipendenti nel cui cuore esiste solo il bene e la crescita del business dell’azienda.
3) I dirigenti di divisione, responsabili del marketing verso i clienti, prendono parte alle votazioni nei comitati di valutazione. Questi product manager sono gli stessi che hanno la diretta responsabilità di mantenere i clienti «felici».
4) Almeno un dirigente senior ha mentito sotto giuramento durante un’audizione riguardo il codice di condotta dell’agenzia mentre un altro è riuscito in qualche modo a disertare l’audizione, visto che era sua intenzione spiegare come il management poneva l’enfasi sulla necessità di accontentare i clienti.
A oggi, Moody’s non ha denunciato Harrington per calunnia o diffamazione e si è rifiutata di rispondere alle richieste di commento e chiarimento di businessinsider.com (anche se il portavoce Michael Adler ha difeso l’integrità di Moody’s in un comunicato riportato dal Washington Post). Quasi un’ammissione di responsabilità: se quelle frasi risultassero veritiere e nulla cambierà nei criteri valutati e nella governance delle agenzie, anche con risvolti penali e civili, parlare di complicità di Wall Street non sarà più tabù.
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